QUEL CHE RESTA DELLA GIOVINEZZA

QUEL CHE RESTA DELLA GIOVINEZZA

Il regista Burhan Qurbani realizza (siamo nel 2014) un film che, a venticinque anni dalla riunificazione della Germania, suona come un interrogativo che disturba e che fa male. Il film, “We are young we are strong”, racconta, in uno stile che non concede spazi ad alcuna forma di sentimentalismo, una storia vera, e lascia a noi l’onere dell’interpretazione.

Veniamo ai fatti oggetto del film: a fine agosto 1992 (tra il 24 e il 25) scoppiarono violenti disordini nella città di Rostock-Lichtenhagen contro la Sonnenblumenhaus (Casa dei girasoli), edificio sito in una zona residenziale e adibito a centro di accoglienza (ZAST: Zentrale Aufnahmestelle für Asylanten). Il centro era sovraffollato, e l’arrivo di un gruppo di sinti che si accamparono intorno allo stabile fu la miccia per l’innesco d una protesta dai caratteri inequivocabilmente razzisti e contro ogni forma di integrazione e che si scatenò non solo contro gli “zingari”, ma anche contro la pacifica, operosa e integrata comunità vietnamita. Nella da poco ex Germania dell’Est. A due anni dalla riunificazione.

Il film racconta il giorno e la notte del 25 agosto, ma un vero racconto non c’è: ci sono le vite dei personaggi che si scontrano in quelle ore e che poi si riallontanano, e tocca a noi cercare la storia in una serie di atti e di parole che non riescono né a vederla né a narrarla, la storia.

Chi sono, questi personaggi? Un padre, Peter,  e un figlio, Stefan. Vivono da soli e sono soli, solissimi e lontanissimi; il padre è un’autorità politica che non riesce a prendere alcuna decisione di fronte al tracollo della civiltà, mentre il figlio è un ragazzo lacerato tra un’indole buona e generosa e un carico di rabbia che lo porta a una solitudine estrema.

Ci sono gli amici di Stefan: Martin, Robbi, Jenny e altri ragazzi sperduti in un mondo che non sanno affrontare. La DDR non c’è più, la Germania è tornata a essere una, tutti sono felici. Loro, no. Non solo non sono felici, sono furiosi, rabbiosi, e la cosa tremenda è che non sanno perché. A un giornalista che pone loro delle domande precise (“Perché siete qui a manifestare?”), non sanno cosa rispondere. Odiano gli stranieri, ma senza sapere perché.

Il ritmo alla storia è dato dalla scansione oraria, che isola una serie di “momenti temporali”, di quinte che si aprono, a mo’ di finestra, su squarci della vita dei personaggi. I silenzi di Stefan, il suo disperato amore per la bellissima Jenny che però lo dileggia; la furia di Martin che si oppone a qualunque cosa, senza distinguere l’oggetto del suo odio, che sia l’autorità, la normalità, la legge, gli stranieri. Di questo personaggio, il più tragico di tutti, secondo me, non conosciamo nulla, se non la sua cieca rabbia, che gli stampa in viso un ghigno costante e spaventoso. In ogni suo gesto –uno sguardo, un abbraccio, un movimento qualsiasi- c’è la minaccia di un’esplosione, e ogni suo gesto è volto a dissacrare, deridere, strappare, mettere in difficoltà, riaffermare un diritto alla propria esistenza come violenza distruttiva. Persino negli abbracci scomposti al suo amico, Martin è violento. E, nella sua violenza, Martin è il più solo di tutti, e la cosa tragica è che lui –forse- lo sa, ma non se lo dice.

La scansione oraria separa i mondo degli adulti –che cercano una soluzione da dentro le stanze del potere o che gridano il loro odio in mezzo alle strade- da quello di questo gruppo di ragazzi disperati –pronti a lanciare bombe incendiarie contro lo stabile abitato dai vietnamiti- che inneggia a Hitler. Mentre le loro strade si separano sempre più, in un baratro di incomprensione, si consuma e giunge al suo culmine, nel gigantesco falò notturno, l’escalation di violenza contro la comunità vietnamita. Lien, una giovane donna che ha appena ottenuto il rinnovo del permesso di soggiorno grazie al suo impegno, assiste desolata e impotente all’odio che filtra dalla bocca del piccolo figlio della sua collega (“muso giallo!”).

In questo movimento di monadi solitarie e impazzite, viene preso d’assalto il palazzo “dei vietnamiti”: appartamenti in fiamme e distrutti dai ragazzi che vi sono entrati sfidando il rischio dell’asfissia e del fuoco. La polizia, inerte; i giornalisti, riprendono. Nessuno interviene e la violenza si consuma così, inutilmente. Nulla è cambiato e nulla cambierà.

E poi, la scelta del regista di usare il colore. Il film è in bianco e nero, ma alla fine –nel momento in cui la TV interviene a intervistare il gruppo di amici- la storia diventa a colori: come se la TV avesse dato realtà a qualcosa che prima non esisteva, perché si faceva finta che non esistesse.

Si direbbe che non vi sia speranza, che la gioventù nata e cresciuta nella DDR non abbia retto il colpo nel passaggio alla “libertà”, che ne sia stata annientata nella propria identità. Invece la speranza c’è, ed è lei a dare allo spettatore il filo con cui tessere una trama, fatta di significato e di comprensione di ciò che altrimenti apparirebbe come irrelato e insensato.

Lien sarà aiutata, proprio dalla sua collega –vicina di pianerottolo e fidanzata dell’esaltato nazista che procura le molotov ai ragazzi-, che nasconde lei e la sua famiglia nel proprio appartamento, salvandoli dalla furia dei manifestanti.

Stefan non si butterà dal balcone. Affronterà il suo dolore, ci piace crederlo, e diventerà un uomo capace di comprendere il dolore altrui.

C’è un momento molto forte –poetico e doloroso al tempo stesso-, che potrebbe essere una chiave di lettura: il gruppo di amici –un’amicizia fatta di violenza scambiata per solidarietà, di soprusi e prevaricazione- sta camminando per una strada campestre; il capetto nazista dà il ritmo ai passi con un motivo inneggiante al Reich, e il gruppo lo segue stancamente, perché nessuno sa le parole. Sono sfiniti: a un certo punto, uno di loro modifica impercettibilmente ritmo, motivo e parole e quel latrato si trasforma nella canzone che tutti conoscono e cantano stringendosi fra loro: l’Internazionale. In un lampo, lo spettatore sente: sente che quel che è stato tolto, alla gioventù, è la possibilità di una condivisione. Non sanno più a cosa guardare, e si aggrappano a tutto ciò che abbia anche solo la parvenza della condivisione. Cantare insieme l’Internazionale non significa il risveglio di una coscienza politica (di lì a poco saranno loro a tirare le bottiglie incendiarie contro gli appartamenti vietnamiti), significa il bisogno sentirsi meno soli.

Il film si apre con tre bambini –la mattina del 24 agosto-, che, con un carrello della spesa, girano per la strada a raccogliere le bottiglie di vetro vuote. La scena finale è la stessa: i tre bambini raccolgono le bottiglie la mattina del 25 agosto, ma incontrano la giovane e coraggiosa Lien, che va al lavoro. Il film finisce con il terribile fermo-immagine di uno dei tre bambini che lancia una bottiglia contro il “muso giallo”. Quindi, niente speranza? Dopo la DDR solo odio? La riunificazione ha isolato invece di unire?

La Germania ha fatto tante e grandi cose, in questi 25 anni, e molto ha accolto e accoglie. Non dimentichi, però, il prezzo pagato. La speranza, quella deve essere ricostruita sempre.

Autrice: Giulietta Stirati

About The Author

Giulietta Stirati

Sono di Roma, dove sono nata il 8/10/1966 e dove vivo, con due cani e quattro gatti. Ho studiato con passione al liceo classico e ancor di più all'università, dove ho imparato a "leggere" e a lasciarmi affascinare dal mondo sconfinato dentro parole, musica e immagini. Contrariamente a quanto pensassi, il luogo migliore dove viaggiare e scoprire questi tesori nascosti l'ho trovato nelle aule dei licei, dove insegno lettere e latino dal 1995. Grazie alle richieste -esplicite e inconsapevoli- dei miei studenti ho mantenuto e mantengo viva la curiosità, quella meravigliosa molla che mi spinge sempre ad andare oltre. A loro anche devo ciò che sono oggi. Coltivo molte passioni, oltre alla lettura, ma qui ne citerò due: amo follemente Berlino -tanto da star progettando il mio trasferimento in questa città che sento mia- e la sua storia, e amo correre: ho corso con mia sorella la maratona di Berlino a settembre 2015 e mi sto allenando per quella di Roma. ....e il tedesco? Presto sarò bilingue!

Related posts

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *