VIVERE E MORIRE D’AMORE

VIVERE E MORIRE D’AMORE

Life’s what you make it

(Zinoba)

 

Ah, l’amore, questa forza primigenia e possente! “L’amor che move ‘l sole e l’altre stelle”, dice Dante nel verso conclusivo della Commedia; “Hominum divumque voluptas”- piacere degli dei e degli uomini- definisce Lucrezio Venere, dea dell’amore perché dea della vita (“alma”, l’aggettivo che la definisce, significa appunto “che dà vita”). 

Non è a caso che cito queste parole: esse esprimono tutta la potenza e l’ambivalenza del sentimento amoroso che, proprio per la sua forza propulsiva, muove gli esseri alla ricerca del loro piacere e, al tempo stesso, muove forze capaci di ardere, sconquassarne l’anima e distruggerli. Chi soccombe a tali forze perde il senno e perde la vita. La domanda è: possiamo farne a meno?

Impossibile dare una risposta, ci dice Fatih Akin con questo film. Perché a volte solo un amore tremendo salva dalla morte; come uno tsunami, strappa dal gorgo chi stava annegando, per poi ritirarsi, portando via con sé cuore, pelle e illusioni.  La storia che il regista ci racconta (superba, va detto; superbi gli attori magnificamente diretti)  è, a tutti gli effetti, una storia di amour fou: lui, Chait, è un uomo senza più voglia di vivere (“gegen die Wand”, letteralmente “contro il muro”, è una scena del film: Chait, furioso e ubriaco, lancia la macchina a tutta velocità contro un muro), che cerca la rissa e tutto ciò che lo possa mantenere in uno stato di totale abbrutimento; lei, Sibel, è una ragazza che, per sfuggire alle maglie della famiglia, si taglia le vene. Entrambi si incontrano presso la struttura sanitaria in cui vengono ricoverati.  Sibel vuole –e ci riesce- che Chait la sposi per liberarla dalla prigione in cui si sente; Chait accetta la proposta di un matrimonio di facciata perché, inspiegabilmente, prova per il dolore di Sibel –che non esita a tagliarsi nuovamente le vene davanti a lui di fronte al suo “no, non ti sposo”- un trasporto autentico, nuovo. Il matrimonio –fondato sul patto “nessun coinvolgimento sentimentale”- svela, inevitabilmente però, le reciproche fragilità: Chait in realtà è vedovo, di una moglie che aveva intensamente amato. E per quanto scacci lontano da sé una fulgida Sibel, non riesce ad evitarne il profumo. Sibel è una creatura fatata, che sorride di un sorriso che illumina tutto ciò su cui si posa.  Lei è la luce del mattino dopo le nozze, che ne segue i passi mentre –in abito bianco- torna a casa da Chait (che l’aveva chiusa fuori) da sola, sorridente, in un’Amburgo deserta. La loro vita estrema –droghe, alcool, sesso- sembra trovare un punto di equilibrio che però si incrina nel momento in cui un disperato Chait si scopre innamorato di lei. Tutto precipita: Chait uccide uno spasimante della moglie, Sibel fugge a Istanbul. E allora, mentre Chait sconta la sua pena e lentamente guarisce, è Sibel ad ammalarsi della sua stessa malattia, come se se la fossero passata: cerca la morte, rifiuta la vita, nega se stessa in una discesa agli inferi che termina con una pugnalata. Come due reduci, Chait e Sibel sopravvivono (Sibel ha una bambina, ha un compagno), ma hanno perduto lo splendore degli occhi;  la luce dell’amore che –come diceva De André- strappa i capelli è spenta. Si incontrano a Istanbul, si amano di un amore che sanno essere l’ultima brace: nonostante ciò progettano di partire insieme, ricominciando una nuova vita a Mersin, paese natale di Chait. Ma Sibel non andrà all’appuntamento. Chait, sulle parole di una straziante canzone d’amor perduto, parte: salvo, ma solo.

Ma c’è un’altra storia, di cui si intende la voce solo se si va oltre il racconto; esso è commento e interpretazione dell’eterna storia dell’amor perduto, dell’amor che move l’universo, dell’amor che toglie il respiro e che salva mentre ti perde. Ed è l’amore cantato da una voce femminile che –nei cinque interventi musicali- racconta la pena e il delirio dell’amore assumendo prima il punto di vista di lei (“Ma sei tu che mi rendi inquieta/mi rattrista il tuo sguardo che il mio amor non ricambia”), poi quello di lui (“trova una fanciulla da amare e fa’ di lei la tua sposa”), ed infine quello di chi ha perduto l’amore (“ Lassù in cima alla montagna c’è un faro che brucia/ volteggiano i falchi sopra quel bagliore/a coloro che amano e a chi l’amore ha perduto/è accaduto, come a me, di uscir di senno?/ La mia tristezza è infinita/restino accecati i miei nemici/Per sempre ho smarrito la ragione/Possano le montagne gioire in vece mia”). Come un coro, parole e musica enunciano una verità dell’anima che poi il racconto dipana. Le luci che si spengono sul prologo musicale  sono le stesse luci del locale in cui Chait lavora: le parole della canzone trovano la loro espressione nella storia di cui sono protagonisti i personaggi. Come una tragedia greca classica , il film si sviluppa a dimostrazione di una tesi che però non porta ad alcuna verità. Tutti i personaggi sono attraversati e feriti/salvati dall’amore, nessuno può uscirne indenne, se decide di seguirne la strada.

L’eterna verità sull’amore è che non c’è nessuna verità: c’è la ferita che l’amore infligge a chi  si abbandona al suo movimento, dalla quale escono fiori, perle e sangue. Da quest’amore tremendo, che pure ha salvato Chait dalla morte e ha reso Sibel capace di amare, ci si salva, ma ad un prezzo altrettanto tremedo: si perde la luce. È straordinaria la capacità degli attori e del regista di raccontare questa fiamma che lentamente soccombe sotto le ceneri. Gli occhi di Sibel non sorridono più, il suo corpo è opaco, proprio nel momento in cui può amare Chait senza ferirsi; ed è da questo amore che Sibel si allontana: è lei che ha perduto l’amore, è lei che sceglie di non continuare un viaggio che ne avrebbe riacceso lo sguardo e riaperto le ferite.

Voi, che fareste? Chiedereste alle montagne di gioire per voi?

la sposa turca“La sposa turca” (originale, “Gegen die Wand”), di Fatih Akin, 2004

Con: Birol Ünel, Sibel Kekilli, Catrin Striebeck, Cem Akin, Hermann Lause

Orso d’oro al festival di Berlino,  2004

David di Donatello al miglior film dell’Unione europea,  2005

European film Award per migliori attrice, attore, sceneggiatura, regista,  2004

European film Award per miglior attore, premio del pubblico, 2004

Independent spirit Award per il miglior film straniero,  2006

 

Autore: Giulietta Stirati

About The Author

Giulietta Stirati

Sono di Roma, dove sono nata il 8/10/1966 e dove vivo, con due cani e quattro gatti. Ho studiato con passione al liceo classico e ancor di più all'università, dove ho imparato a "leggere" e a lasciarmi affascinare dal mondo sconfinato dentro parole, musica e immagini. Contrariamente a quanto pensassi, il luogo migliore dove viaggiare e scoprire questi tesori nascosti l'ho trovato nelle aule dei licei, dove insegno lettere e latino dal 1995. Grazie alle richieste -esplicite e inconsapevoli- dei miei studenti ho mantenuto e mantengo viva la curiosità, quella meravigliosa molla che mi spinge sempre ad andare oltre. A loro anche devo ciò che sono oggi. Coltivo molte passioni, oltre alla lettura, ma qui ne citerò due: amo follemente Berlino -tanto da star progettando il mio trasferimento in questa città che sento mia- e la sua storia, e amo correre: ho corso con mia sorella la maratona di Berlino a settembre 2015 e mi sto allenando per quella di Roma. ....e il tedesco? Presto sarò bilingue!

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