SILENZIO, PARLA LA PSICOLOGA. Vademecum per tutti i nevrotici da fase 2

SILENZIO, PARLA LA PSICOLOGA. Vademecum per tutti i nevrotici da fase 2

Ultimamente, mi domando se posso ancora considerarmi l’esempio di un cittadino italiano medio, dal momento che ne incarno forse il modello più nevrotico, il mitico Carlo Verdone potrà capirmi.

Oltre a disinfettare spasmodicamente superfici, come se fossi assediata da eserciti di droplet armati di covid fino ai denti, un’altra delle mie pratiche abituali quando esco, è diventata il calcolare la distanza tra due persone.

L’occhio mi si trasforma in un laser di precisione e se, secondo i miei calcoli, la distanza è inferiore a 2 metri – sì perché un metro non basta, sappiatelo – mi scatta un allarme interno per cui il laser lo punterei a piena potenza contro i malcapitati.

Il punto di non ritorno è stato qualche giorno fa. Ho chiesto ad un’amica, che a differenza mia aveva ripreso con disinvoltura la vita sociale, come stesse e lei mi ha risposto: “Tutto bene, anche se da un paio di giorni ho gli occhi che mi bruciano e lacrimano”. Qualcosa dentro di me ha vacillato, ho sentito uno strappo dentro, non ce l’ho fatta a trattenermi e le ho detto: “Non vorrei allarmarti, ma…LO SAI CHE UNO DEI PRIMI SINTOMI DEL COVID È LA CONGIUNTIVITEEEEEE?????!!!!!”.

Lei mi ha risposto che già si sentiva meglio e non l’ho più sentita nei successivi tre giorni.

Ora, per fortuna la mia amica sta bene, ci siamo risentite senza problemi e soprattutto senza mie ulteriori diagnosi, ma ormai ho delle domande che mi attanagliano: è normale una reazione del genere post lockdown? Rientro ancora nella media degli italiani (normali intendo)? È normale che un semplice invito a cena in questo periodo, viene da me percepito come la peggiore delle sventure?

Chi altri, se non una psicologa, avrebbe potuto sciogliere i miei amletici dubbi?

E così che raggiungo telefonicamente la dott.ssa Stefania Scimone, psicologa clinica che vive ed esercita a Lecce.

Dottoressa, è normale avere delle reazioni così accese in questa seconda fase del coronavirus? Non avere voglia di uscire e temere addirittura un banale invito a cena?

È una reazione che ci aspettavamo nella fase due. Consideri che abbiamo passato i due mesi precedenti ad “armarci”. Anche a livello giornalistico sono piovute metafore del “combattere il virus”, è come se ciascuna persona si fosse disposta in assetto di guerra, armandosi e facendo incetta di protezioni, i DPI concreti che conosciamo, ma anche quelli psichici.

Questi mesi di lockdown hanno sollecitato un’enorme mole di paura, che ovviamente non sparisce tutta di colpo nel momento in cui il virus si ridimensiona.

L’adattamento alla misura di lockdown è stato molto faticoso, un sacco di persone non cedevano al fatto che il virus era in città, che dovevano a stare a casa e indossare le protezioni. Così come c’è stata una difficoltà di adattamento in entrata, allo stesso modo stiamo vivendo una difficoltà in uscita. Temiamo il rimetterci in un mondo che fino a due settimane fa era pericoloso. Ammesso che di uscita poi si possa parlare, perché neanche questo è certo.

Il timore che nutriamo oggi nei confronti del mondo esterno, è una diretta conseguenza di tutta la paura accumulata in questo periodo, anche per coloro che l’hanno tenuta a bada con una corretta informazione. Gli stati affettivi non svaniscono di colpo, come se ci fosse un interruttore, permangono o comunque lasciano delle tracce. Consideri poi, che è come se i Dpcm ci dettassero in qualche modo il cosa fare, ma la realtà emotiva non va in relazione a quello che gli altri ci dicono di fare, e questo si somma allo stato di tensione già presente.

Anche il suo lavoro ha subito un brusco arresto durante la quarantena oppure paradossalmente l’attività è aumentata?

Innanzitutto anche io, come molte altre professioni, ho dovuto fare per necessità il passaggio allo smart working. Lavorando sia nel privato, che nell’ambito del volontariato, in entrambi i casi il passaggio è stato effettuato per un numero pari di persone. Le richieste sono invece aumentate di molto sul piano degli sportelli che abbiamo attivato volontariamente, per sostenere le persone nell’emergenza covid.

Io, in particolare, ho attivato uno sportello volontario di consulenza con la S.I.P.P., la Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica, già prima che il Ministero della Salute creasse il suo grande sportello con 1500 psicologi volontari.

Ha riscontrato disagi nel passaggio alla modalità smart working?

Indubbiamente, ma con delle differenze. I pazienti nel privato sono gli unici autostabilizzati dal fatto che pagano loro in prima persona la terapia, ma ovviamente il percorso terapeutico è stato messo a repentaglio dalla crisi economica, che si è palesata insieme alla crisi sanitaria. Di questi qualcuno è rimasto e qualcuno no, oltre al fatto che immagini il dover fare smart working in questo ambito. Io ho la fortuna di avere massima libertà a casa mia, ma immagini quante persone invece non avevano lo spazio psicofisico per fare la seduta in un luogo che non fosse lo studio.

C’è gente che l’ha fatta in strada, sui terrazzi, chi andandosi a rifugiare negli androni delle scale o in macchina, c’è un sacco di gente che l’ha fatta in macchina, ovunque. D’altronde mettere insieme le persone a convivere così per due mesi, se poi ci sono già problemi familiari preesistenti, cosa vuole che sia? Un disastro, una miscela esplosiva.

Per quanto riguarda i pazienti del pubblico, l’assistenza non è stato possibile garantirla a tutti o comunque non in un modo che potesse consentire continuità. Se non sei strutturato nel pubblico, come non lo sono volontari e tirocinanti, non potevi accedere e per questo si sono verificate parecchie difficoltà. I colloqui hanno rappresentato più un’oasi, anche perché non è possibile risolvere un problema in due mesi di lockdown.

C’è stata una cosa molto positiva però: tante persone hanno approfittato dell’ansia generata dal lockdown per potersi aprire e fare quel passo verso la psicoterapia che normalmente non si consentivano di fare, probabilmente per paura e resistenza.

Un discorso a parte si dovrebbe fare poi per i pazienti psichiatrici, sono loro quelli che, senza dubbio, hanno subito le conseguenze peggiori di questo virus, sul piano dell’integrità mentale.

Qual è, se ce n’è una, la problematica che ha riscontrato di più tra i suoi pazienti durante il lockdown?

L’emergenza covid ha agito in maniera molto variegata sulla popolazione, chiaramente ogni persona ha la sua storia ed è unica. Diciamo però che quasi per tutti, la paura più forte era legata alla minaccia che il virus rappresentava, una minaccia anche di morte nel momento iniziale, invisibile, diffusa e assolutamente incontrollabile. È come se in tutti ci fosse stato un aumento della percezione dell’angoscia di morte, che poi si declinava in ciascuna persona in modo specifico. Le posso dire che ho riscontrato una ritraumatizzazione di tutti.

Che intende con “ritraumatizzazione”?

Intendo dire che quello che il covid ha fatto, è stato un po’ come prendere un raschietto e risollevare tutti gli aspetti traumatici con cui ognuno di noi in fondo fa i conti. Di solito cerchiamo di tenere sotto soglia questi aspetti, ma il covid è come se li avessi rialzati tutti quanti assieme di colpo.

Questo si è verificato soprattutto per il fatto che l’isolamento e il lockdown hanno costretto le persone a fermarsi. Tutti quelli che avevano sempre gestito i propri aspetti conflittuali con l’azione, quindi “faccio per non pensare, faccio per non sentire”, si sono ritrovati improvvisamente affogati dal fatto che questi aspetti tornavano a galla in maniera prepotente, senza però, questa volta, la possibilità per loro di scappare.

Ha riscontrato altri disagi emotivi? 

Rispetto alle nuove richieste, ci sono state tantissime persone che si sono ritrovate completamente sole e che hanno patito enormemente la solitudine e la carenza degli affetti. Quella che normalmente definiamo una “crisi dei rapporti”, che comporta solitudine, la virtualizzazione di ogni rapporto e tutto quello che ne deriva, qui è stata ancor più esacerbata dall’isolamento a casa per il covid.

Ha avuto modo di confrontarsi con suoi colleghi di altre regioni? Hanno riscontrato le stesse dinamiche?

Sì, anche se c’è stata una differenza tra nord e sud abbastanza importante. Mi spiego meglio.

È chiaro che tutto quello che abbiamo vissuto al sud era, se vogliamo, un’eco di quello che accadeva al nord. Ho avuto frequenti contatti con colleghi veneti, lombardi, emiliani e devo dire che la percezione del rischio era effettivamente qualcosa di diverso tra nord e sud.

I colleghi del nord sono stati immersi, loro malgrado, in una condizione molto più complicata. Alcuni temevano addirittura di non riuscire a riprendere più l’attività o immaginavano una grande difficoltà nel continuare a seguire i pazienti, per la questione di non poter fare di nuovo contatto. Oggi siamo nella fase 2 e abbiamo ripreso a vederci di persona, ma due mesi fa questo ci sembrava abbastanza lontano come scenario.

Pensi ad uno psicologo di Bergamo ad esempio, non ho avuto un confronto diretto, ma immagino che si sia rapportato con quello che le ho detto prima, a livelli qualitativamente triplicati rispetto a quanto ho potuto fare io, che lavoro e vivo in una città come Lecce, dove il massimo dei contagi che abbiamo avuto sono stati un’ottantina.

Il punto è che quando la realtà viene messa sotto sopra, l’area della psicologia, che è un’area dove si dà molta importanza a tutto quello che è il mondo interno, viene messa a dura prova. E questo perché il bisogno reale è molto più contingente. In altre parole, io per poter andare in psicoterapia devo intanto poter mangiare, bere, dormire e quando la realtà di questi aspetti viene messa in ginocchio, è molto più complicato andare a lavorare sulle fantasie del mondo interno.

Che consiglio si sente di dare a chi in questa fase 2 sta arrancando emotivamente?

Consiglio quello che sto dicendo da mesi e che ha validità universale, ovvero di non abnegare i propri stati emotivi, qualsiasi essi siano. Questo non vuol dire farsi fagocitare, ma è importante entrare sempre in contatto con quello che ci scorre dentro e poterlo mettere in relazione ai cambiamenti di questa realtà. Quello che le persone faticano di più a capire è che il negare la paura è assolutamente un’operazione deleteria. Si deve piuttosto riuscire a trovare per ciascuno delle strategie che riescano a rendere la paura gestibile e poi affrontabile.

Pensando a questa fase 2 ad esempio, credo che le persone non debbano violentarsi per uscire di casa, andare al bar e fare tutte le attività di prima come se niente fosse, perché quel “come se niente fosse” non è come se il virus non fosse mai esistito, ma come se io non avessi mai avuto paura e questa negazione può fare solo male a lungo andare.

È invece utile riconoscere dentro di sé il timore per una minaccia reale che abbiamo vissuto, e fornirsi di condizioni che rendano quella paura più gestibile.

Quindi, tornando all’esempio di prima, non mi butto nella mischia, ma chiamo una persona che comprende il mio stato d’animo, che riesce a starmi accanto in una condizione di incertezza e mi aiuta a superarla. In altre parole, farsi dare la mano per essere traghettati fuori dall’incertezza, da chi è più tranquillo, ma che comunque ha i piedi per terra.

Bella immagine quella del lasciarsi prendere per mano, dopo averle disinfettate ovviamente! Sapendo di parlare con lei oggi, ho chiesto a chi mi segue su Instagram se avesse delle domande da porle. Ne ho scelte due. Una persona le sottopone un sogno ricorrente: “sogno spesso di uscire senza mascherina, ma mi sento così in forte disagio che devo tornare subito a casa”.

I sogni sono un argomento bellissimo, il sogno fa un lavoro di tessitura notturna del senso dell’esperienza molto bello.

A questo proposito, una cosa che tutti noi abbiamo notato clinicamente, è che tutte le persone che sono state bloccate a casa, hanno avuto un incremento esponenziale dei sogni in questo periodo. Il sogno infatti, è un tentativo inconscio di elaborare quello che è “indigeribile” durante la veglia.

Nel caso di questa persona, è abbastanza chiaro che il sogno tenta l’elaborazione di qualcosa che nello stato di veglia è come un bel mattone di calcestruzzo da digerire: la vita senza mascherina, che in questo momento è un’eventualità spaventosa. Questo tipo di esperienza, almeno per ora, è qualcosa che non ci appartiene più. Viviamo un profondo disagio per una condizione di piena libertà che in questo momento non possiamo sperimentare.

L’altra persona le sottopone invece una questione molto diffusa e dibattuta da sempre: la paura di non aver vissuto una vita seguendo le proprie passioni.

Molto interessante anche questo. Il covid ha portato una stratificazione di paure enormi: la paura di ammalarsi, di contagiare l’altro, di morire, di rimanere isolati e quella di non poter riavere la vita di prima. Questa domanda mi fa pensare al fatto che questo virus è come se avesse messo un punto a tutto ciò che scorreva prima. La nostra vita ad un certo punto è stata arginata e questo ha spinto necessariamente le persone a prendere più contatto con la propria parte interna, compresa quella che ha a che fare con la routine.

Durante il lockdown si è parlato tantissimo di quanto la vita scorresse ad un ritmo frenetico prima. Con lo stop forzato ognuno ha potuto domandarsi “cosa ho fatto della mia vita fino ad oggi? Cosa posso pensare di volerci rimettere dentro quando riparto?”.

La rivalutazione di alcuni aspetti della propria vita, in un momento in cui tutti sono legittimati a fermarsi, è stata un’occasione potentissima. Questo perché, se io mi voglio fermare da solo, in un contesto dove tutti vanno come un treno, è ovvio che io ne senta tutto il peso, perché rischio l’esclusione, rischio cioè di essere da meno, all’interno di un meccanismo che procede spedito. Diversamente, il fermarsi tutti, ha favorito un processo di riflessione meno travagliato da questo punto di vista e ha consentito di porsi con più consapevolezza certi interrogativi. È comprensibile che affiorino perciò domande sul senso della vita e sulla paura di vivere distaccati dalle proprie emozioni. Per molti ne è scaturito un desiderio di riprendere una vita che sia più a contatto con gli aspetti che alimentano il vissuto profondo di se stessi. Un allontanamento netto dalla precedente logica di input-output, dove “io faccio per produrre”.

Almeno così immagino, dovremmo chiedere alla persona che ha posto la questione se sente risuonare queste cose dentro di sé.

Un’ultima domanda gliela voglio fare io. Lo psicologo, o lo si teme come l’aglio in agguato in un piatto di pastasciutta o gli si attribuisce un potere magico come un guaritore di tutti i mali. Chi siete davvero?

“(Scoppia in una fragorosa risata) È una bellissima domanda. Noi siamo, in buona parte, quello che le persone pensano che noi siamo. Gli psicologi si mettono a disposizione di una persona, al fine di poter essere dei supporti emotivi, all’elaborazione di ciò che c’è nel mondo interiore di quella persona.

Il valore simbolico che può avere uno psicologo deriva da una molteplicità di fattori. Sicuramente in parte anche dal modo in cui viene vista la categoria dal punto di vista socio-politico e da come i media dipingono l’immagine dello psicologo. Abbiamo cioè, un’interfaccia pubblica che contribuisce molto a decidere se questo immaginario sia più da “aglio” o da “guaritore”.

Quello che mi sento di dire con certezza è che lo psicologo ad un certo punto arriva a rappresentare per la persona, uno specifico elemento di valore, che è stessa persona ad attribuire al professionista.  Le faccio degli esempi. Ci sono persone che vanno dallo psicologo immaginando un modello medico, vorrebbero risolvere i problemi emotivi, nello stesso modo in cui curerebbero un ascesso al dente con l’antibiotico, si aspettano che lo psicologo sia la pillola. Altre persone invece, vanno con lo stesso atteggiamento sacrale con cui si va da un grande guaritore. C’è poi chi ne fa un grande discredito. Lo psicologo è oggetto di grandi fantasie da parte di tutti e questo perché ogni cosa molto idealizzata ha anche un suo contrario, che è invece persecutorio.  Pensi ad un qualunque oggetto posto in una teca e venerato, in realtà è anche molto persecutorio, perché l’oggetto da lassù mi guarda e osservandomi potrebbe dirmi se faccio bene o faccio male. In un percorso psicologico tutti questi aspetti sono elaborati e quando si imbocca il verso giusto si ritirano.

Lo psicologo ti accompagna alla comprensione e alla sperimentazione, perché c’è una parte dove capisci col cervello e una parte dove sperimenti dei modelli di relazione che possono avere un valore positivo per la tua vita.

E poi non si può comprendere cos’è uno psicologo, se non si riesce prima a capire l’importanza dell’aglio nel proprio piatto. Magari è importante, ma non è tutto. Solo così si riesce a mettere in luce anche il valore che la persona stessa ha nella terapia. Spero di essere stata chiara.

Sì, siete un po’ tutto in pratica: un guaritore che si fa una pasta aglio, olio e peperoncino. Cambiate a seconda del commensale che siede a tavola!

(Ride) La meraviglia è che magari l’aglio sei tu però credi che sia l’altro. Sei quel pezzettino che dà quell’estremo sapore tanto gustoso e sei anche lo stesso pezzettino che, se masticato, potrebbe essere fastidioso.  Lo psicologo altro non è, che il contenitore di tutte queste meravigliose proiezioni. Può diventare qualsiasi cosa tu voglia inconsciamente in quel momento.

About The Author

Claudia Carbone

Fiera della sua napoletanità, ma altrettanto orgogliosa della cittadinanza putativa milanese, le piace definirsi: “made in Naples, refined in Milan”. Non è facile inquadrarla: prendi due cose all’esatto opposto, mettile accanto e avrai qualcosa che le assomiglia. Laureata in Economia aziendale, master in gestione degli eventi, passa con uno jetè dal marketing alla scuola di musical, si diletta per un po’ come attrice per poi gettarsi a capofitto nella radio, dove diventa speaker e conduttrice. È anche una giornalista, appassionata di inchiesta. Il leitmotiv di tutta la sua vita? Le parole. Che siano scritte, cantate, pronunciate ad un microfono, non le mancano mai. È fermamente convinta che le uniche cose che possano salvare il mondo da una caduta verticale siano l’autoironia e il non prendersi mai troppo sul serio (da non confondere con la mancanza di serietà). Ironia e serietà, ecco un altro apparente contrasto...that’s Claudia, folks!

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