Il progetto Artemisia e l’inclusione dei diversamente abili in Germania. Intervista ad Amelia Massetti.

Il progetto Artemisia e l’inclusione dei diversamente abili in Germania. Intervista ad Amelia Massetti.

Incontro Amelia Massetti a Kreuzberg, in un Café sulla Bergmannstrasse. Amelia ha costituito a Berlino un’Associazione, denominata Artemisia, senza fini di lucro, il cui scopo è quello di promuovere l’inclusione delle persone diversamente abili in Germania. Il tema dell’inclusione è un tema caldo e dibattuto qui in Germania. Infatti, a differenza dell’Italia dove le scuole differenziali sono state abolite nei primi anni 70, in Germania esse ancora esistono (in tedesco Förderschulen o Sonderschulen). Dopo una denuncia delle Nazioni Unite nel 2009, il Paese si è impegnato ad abolirle entro il 2020.  Ma il percorso sembra essere parecchio accidentato. Sono felice di incontrare Amelia e glielo dico subito, perché il tema mi interessa particolarmente.  Le spiego che io stessa rimasi molto colpita, pochi anni fa, quando mi resi conto che la visita medica prescolare a cui furono sottoposti i miei figli all’età di sei anni, così come tutti bambini che risiedono in Germania, non è solo una normale visita medica di controllo, ma ha uno scopo ben preciso: quello di capire se i bambini siano normodotati oppure no, sia a livello fisico che intellettivo, per poi poterli indirizzare o in una scuola elementare normale oppure in una scuola differenziale specifica. Glielo racconto e Amelia annuisce. Capisce il mio stupore.


– Amelia, parlami di Artemisia. Perché hai deciso di fondare questa Associazione?

artemisia_logo_web_blackQuest’idea mi è nata per aiutare in primo luogo le famiglie italiane con bambini disabili che arrivano qui e che non sanno cosa fare. Con Artemisia voglio essere un punto di riferimento per loro. Desidero informarli prima di tutto, aiutarli a trovare il giusto interlocutore tra le istituzioni tedesche e insieme lavorare per cambiare la situazione, anche ovviamente collaborando con altre associazioni tedesche che hanno gli stessi obiettivi.  Noi italiani in questo siamo più avanti, abbiamo più di quarant’anni di esperienza di inclusione scolastica alle spalle, quindi forse possiamo dare un contributo positivo al dibattito. È anche un modo per confrontarmi con altri genitori. Io ho una figlia, Lia, con la sindrome di Down. È nata e cresciuta qui. Ora ha 27 anni e dalla sua nascita ho dovuto affrontare situazioni complesse e sono stata quasi sempre da sola. Anche per questo ho deciso di fondare Artemisia, per far sì che altri genitori italiani, ma non solo, possano trovare un luogo di incontro. Vi sono anche insegnanti italiani che fanno parte di Artemisia, che lavorano in scuole pubbliche europee italo-tedesche, e loro mi confermano tutte le critiche e i dubbi che coltivavo da anni. Figurati che ancora adesso è molto difficile far entrare un bambino diversamente abile alla Finow, una delle due scuole elementari europee italo-tedesche presenti a Berlino!

– E il Consolato Italiano?

Sono stati molto disponibili quando gli ho parlato di Artemisia. Hanno pubblicizzato sul vademecum per gli italiani a Berlino e sul loro sito consolare la presenza sul territorio del progetto Artemisia

– Anche perché credo che le Scuole Europee (SESB) dipendano dalla Città Stato di Berlino. Lo Stato italiano c’entra poco…

Infatti.

– Al limite si potrebbe spingere per creare una vera scuola italiana finanziata interamente dallo Stato Italiano, con un’inclusione all’ italiana. Ma, in fin dei conti, anche se questo venisse fatto, non si risolverebbe il problema in Germania…

Esatto. Con Artemisia l’idea è quella di creare prima di tutto un gruppo solido italiano, che interagisca con le istituzioni competenti, che abbia la capacità di promuovere progetti sul tema della disabilità e dell’inclusione. Il mio sogno è quello di diventare noi un interlocutore privilegiato per le associazioni tedesche simili alla nostra. E lottare insieme. Ma per arrivare a questo, io credo che prima di tutto sia importante formare un gruppo italiano, forte delle nostre esperienze in materia. Ed è quello che stiamo creando. Ci siamo dati uno statuto e la nostra Associazione sta nascendo anche formalmente. Ci dividiamo i compiti e ci incontriamo ogni primo lunedì del mese per decidere assieme le varie iniziative.

– Parlami di tua figlia Lia, della tua esperienza con lei nella scuola tedesca.

Alle elementari, nel 1996, riuscii a farla entrare alla scuola “Charlotte Salomon”, che proponeva uno dei primi progetti pilota d’ inclusione qui a Berlino; progetto in cui venivano inseriti un numero limitatissimo di bambini diversamente abili. Mia figlia aveva un’insegnante di sostegno, otto ore la settimana. Per il resto del tempo Lia era parcheggiata, guardava gli altri andare avanti…

– Non c’era un programma per lei?

Non precisamente. I bambini diversamente abili delle diverse classi venivano messi, in alcune ore della giornata, in un’aula separata dove facevano attività esclusivamente per loro: cucina per esempio. E durante le attività sportive siccome lei non correva alla stessa velocità degli altri non partecipava. Restava seduta tutto il tempo a guardare. Inoltre mia figlia alle elementari voleva fare i compiti a casa, come tutti gli altri, ma non le venivano assegnati. Lei voleva farli, me lo chiedeva, vedeva che tutti avevano un quaderno con i compiti e desiderava averne uno anche lei. Io andai a chiedere all’insegnante, proponendole di darle compiti più semplici, e lei mi rispose allibita che non aveva senso assegnarglieli. Io andai in Direzione, protestai, non fu possibile interferire con la didattica dell’insegnante.

– Quindi non c’era un idea pedagogica dietro? Non era una vera inclusione?

No…io avevo l’impressione che fosse più un’inclusione di facciata, di superficie, non c’era una vera interazione tra bambini normodotati e bambini diversamente abili, e nemmeno tra le loro famiglie. Non era stata pensata come una vera interazione, ma come un’esperienza di conoscenza reciproca. Ma l’Inclusione è un’altra cosa. Invece al Kindergarten, ossia la scuola materna, che gestivamo direttamente noi genitori eravamo riusciti in parte a creare una vera inclusione, anche tra le famiglie. Alle elementari invece tra le famiglie c’era una differenza incolmabile. Io per esempio invitavo sempre tutta la classe al compleanno di Lia, mentre lei non veniva mai invitata. Quando chiesi le ragioni ai genitori loro mi risposero: “mio figlio non la vuole invitare e poi nemmeno io saprei come comportarmi…” Se me ne avessero parlato io li avrei aiutati, sarei andata con mia figlia alla festa, non l’avrei certamente lasciata lì da sola con loro.

– E questo secondo te perché accadeva?

Non c’era la mentalità di parlare ai propri figli e magari spiegare loro che anche se non volevano invitarla, perché “diversa”, sarebbe stato comunque un bene farla partecipare, perché anche lei faceva parte della classe… Io penso che possa essere normale che un bambino si senta in difficoltà o intimidito, ma i genitori sono lì per insegnare, per aprire la mente…per educare all’inclusione appunto.

– Per educare alla diversità?

Ma certo!  I bambini a quell’età non hanno la capacità di decidere su tutto. E poi considera che allora questa specie d’inclusione valeva solo per le scuole elementari, quindi fino ai dodici anni. Dopo io feci di tutto per cercare una scuola superiore adatta a mia figlia…niente! Andai al liceo italo-tedesco, al Consolato Italiano a chiedere per quale motivo non fosse possibile mandare mia figlia alla scuola superiore italo-tedesca, essendoci in Italia l’inclusione…Nulla, non fu possibile! E quindi fui costretta a inserire mia figlia in una scuola differenziale.

– Stiamo palando di circa quindici anni fa. Nel frattempo è cambiato qualcosa a livello di mentalità?

A mio avviso è cambiato poco purtroppo. Ora io con Artemisia mi sto rendendo conto che le famiglie italiane con figli diversamente abili hanno gli stessi miei problemi di allora. Conosco famiglie che sono tornate in Italia per questo. Tuttora l’inclusione, nelle scuole in cui viene fatta, non è svolta in maniera adeguata. Ossia il ragazzo diversamente abile non è parte integrante della classe, di un progetto, ma continua ad essere troppo spesso “escluso” durante la didattica. E parliamo solo di scuole elementari. Ancora oggi è difficilissimo far entrare un figlio diversamente abile in una scuola superiore. L’ inclusione si ferma comunque sempre e ancora lì. Io sono stata pochi mesi fa al Bezirksamt (Ufficio Distrettuale) del quartiere di Neukölln, e ho parlato con il responsabile degli aiuti sociali, e mi diceva che non hanno nessuna intenzione di eliminarle.

– Ma la Germania nel 2009 è stata condannata dalle Nazioni Unite ed obbligata ad eliminare progressivamente tutte le scuole differenziali.  Ha ratificato, ha firmato un documento in cui si è impegnata ad abolirle entro il 2020. Io ho anche trovato in internet un documento programmatico del Senato di Berlino del 2010, a guida SPD, in cui si impegnavano appunto in questa direzione, e a formare personale specializzato.

Questo è vero, per legge adesso le scuole sono obbligate ad accettare le persone disabili e a organizzarsi in proposito. Infatti ci sono più scuole che fanno inclusione, ma se parli con i vari Uffici Distrettuali di Berlino per esempio, ti dicono che sono principalmente i genitori di figli diversamente abili a volere le scuole differenziali. La richiesta per le scuole speciali è più alta che per quelle inclusive.

– Allora c’è un problema culturale alla base?

Eh sì! Perché non avendo fatto un lavoro di base, culturale, che cercasse di cambiare la mentalità, i genitori dei bambini diversamente abili si sentono più sicuri così.

– E a te risulta che stiano formando del personale specializzato, ossia veri “insegnanti di sostegno”? Durante una riunione dei rappresentanti di classe alla Finow ,la scuola elementare europea italo-tedesca, la Direttrice ci disse che in teoria il personale dovrebbe essere formato e le scuole speciali abolite entro il 2020, ma, per quanto riguarda Berlino, mancherebbero sia i fondi, sia la volontà di trovarli.

Infatti. La mia esperienza è che ancora adesso la situazione è molto difficile. Stanno molto indietro. La giustificazione della mancanza di fondi è un modo per non cercare altre soluzioni. Probabilmente è anche una questione economica, ma in fin dei conti è la politica che decide: è una decisione politica quella di finanziare o meno la qualificazione.

– Che deve fare un insegnante di sostegno italiano che arriva qui?

Il problema è anche questo. Viene riconosciuta solo una parte della formazione compiuta. Poi bisogna comunque studiare altri 3 anni per diventare Sonderpädagoge. Quindi il problema non è solo linguistico, ma proprio di percorso formativo. Noi abbiamo vari insegnanti e operatori italiani anche in Artemisia.

– Da quando esiste Artemisia?

Da dicembre del 2015. Da poco. Stiamo scrivendo il nostro Statuto e a breve saremo un’Associazione senza fini di lucro a tutti gli effetti. Stiamo preparando un primo progetto di inclusione per tutti, di scrittura creativa, teatro … Se passerà sarà il primo progetto italiano inclusivo a Berlino, al di fuori della scuola ovviamente.

– E invece, tornando alla tua esperienza personale. Cosa è accaduto dopo le scuole elementari con tua figlia Lia?

È stata obbligata ad andare in una scuola speciale appunto. Come dicevo prima, anche adesso dopo le elementari è quasi impossibile trovare alternative qui a Berlino.  E anche dopo, il percorso scolastico-formativo per i diversamente abili è già molto ben definito, strutturato, segue un iter ben preciso: dopo le scuole speciali ci sono le Werkstatt, ossia i laboratori di formazione al lavoro. Ma è un percorso comunque chiuso, da cui è impossibile uscire. Mia figlia lavora in un laboratorio di teatro, che anche se in teoria sarebbe per persone diversamente abili e non, la maggior parte delle persone con cui lavora sono diversamente abili, come lei. Ultimamente è accaduto un fatto che mi ha molto ferito, ma che è esemplare per capire cosa intendo: mia figlia è molto brava a ballare, e qualche settimana fa è stata invitata a fare uno spettacolo a Monaco, una performance tutta sua di danza africana. Le hanno proposto 300 euro per questa performance. Io ero molto contenta…che bello, la pagano… pensai. L’ho comunicato ai servizi sociali, e le hanno tolto tutto, in quanto Lia non ha diritto a trattenere per sé i soldi che guadagna.

– E perché?

Perché lei teoricamente “lavora” in questo laboratorio teatrale, ma in realtà quello che percepisce non è considerato uno stipendio, ma un sussidio, una forma di assistenza. E quindi il suo non è considerato un vero e proprio lavoro.  Per una volta lei avrebbe avuto la possibilità di essere pagata come tutti, e invece le hanno negato questa soddisfazione, in quanto ricevendo sussidi non ne ha diritto.

– Quindi non se ne esce? Praticamente è come se Lia avesse un “finto” lavoro?

Sì, esatto. Non viene considerato lavoro a tutti gli effetti quello che fa.

– Ed è obbligata ad andarci a questa Werkstatt ?

Sì certo. È obbligata. Se non ci va deve fornire una giustificazione e comprovarla. Come i disoccupati che ricevono i sussidi dallo Stato, che sono obbligati a presentarsi al Job Center o ad accettare qualsiasi lavoro…come coloro che ricevono Hartz IV.

– E alla fine i 300 euro quindi non li ha potuti guadagnare?

No, e per me è stato un colpo durissimo! Sarebbe stata una soddisfazione per lei, essere trattata per una volta come tutti, essere retribuita esattamente come l’altra sua collega che ha partecipato allo stesso spettacolo, ma lei non essendo diversamente abile ha potuto percepire il suo compenso. E considera che alle persone diversamente abili vengono messi sotto controllo i conti correnti, non possono superare la cifra di 2500 euro sul proprio conto.

– E se la superano che succede?

Viene loro tolta.

– Con quale motivazione?

Perché loro ti considerano “percettore di sussidi” e quindi pagandoti la formazione, e dandoti i sussidi, che appunto non sono uno stipendio ma assistenza, se tu poi lavori normalmente loro possono toglierti tutto, non darti più nulla. Per esempio, se un parente o qualcuno volesse regalarle mille euro, lei non potrebbe riceverli legalmente.

– E se ricevesse che ne so un ruolo in un film?

Non può percepire una remunerazione, in qualche modo la deve restituire. Quindi non se ne esce.

– Potrebbe uscirne solo rinunciando ai sussidi?

Sì, ne uscirebbe solo se decidesse di non andare più alla Werkstatt, il laboratorio di teatro, di non lavorare per loro. Se uscisse totalmente dall’assistenza statale allora potrebbe guadagnare. Però ovviamente per lei non è così semplice come per una danzatrice non diversamente abile. Ha comunque meno possibilità di rendersi completamente autonoma. Però io dico: si potrebbe trovare un compromesso. Permetterle comunque, quando ne ha diritto, di guadagnare come gli altri, non di essere trattata sempre e comunque da soggetto “diverso”. Inoltre considera che la formazione che loro fanno in questi laboratori non è una formazione mirata alla ricerca di un posto di lavoro vero e proprio. È mirata a formarli per poi restare lì tutta la vita. Non promuovono in nessun modo la loro indipendenza economica, non li aiutano a inserirsi nel mondo del lavoro. Preferiscono tenerli entro queste strutture con un percorso ben definito da cui è impossibile uscire. Tanto è vero che, al contrario degli artisti normodotati, coloro che gestiscono questi laboratori, tipo il teatro dove sta Lia, non tengono in considerazione affatto il talento individuale. Loro sono obbligati a partecipare a questi laboratori artistico-pittorici. Mi spiego meglio: nel laboratorio teatrale dove lavora mia figlia collaborano anche registi di livello internazionale, che mettono in scena una decina di spettacoli l’anno. E i ragazzi danzano e recitano a rotazione. Quando mia figlia non balla, deve occuparsi della parte pittorica. Lei qualche volta non vuole, ma deve farlo per forza, è obbligata a produrre almeno un disegno a settimana. E sarebbe obbligata in ogni caso, anche se non fosse portata per la pittura, come non sono portate per il teatro tante persone normodotate. Insomma il talento individuale non viene considerato e valorizzato come per qualsiasi artista. E tu come diversamente abile o genitore non hai scelta, e non hai diritti. Sei obbligato a fare quello che decidono gli educatori-direttori artistici, anche andando contro le tue attitudini. E tra l’altro questi laboratori creano oggetti che vengono poi rivenduti, e oggetti che vengono ripuliti e ristrutturati dai ragazzi. Quindi loro producono, come tutti, ma a basso costo. Sono manovalanza sottopagata.

– Quanto lavora e quanto percepisce Lia al mese?

Lei “lavora” dal lunedì al venerdì, dalle 8.30 di mattina fino alle 15.30 per 7 ore al giorno. Quindi 35 ore a settimana per 900 euro al mese, di cui 450 le riceve come contributo per pagare le spese di affitto. Naturalmente quando lavorano in teatro hanno altri orari, serali.

– Quindi Lia “lavorerebbe” per 450 euro al mese?

Sì. Esatto. E non aggiungo altro.

– Allora concludiamo con qualche informazione pratica.

– Sì, con un invito. L’Associazione Artemisia si riunisce ogni primo lunedì del mese. Stiamo cambiando la sede, i dettagli si trovano nella sezione “incontri” del nostro sito. Facciamo presentazioni con operatori nel campo che ci spiegano le loro attività. Tutti coloro che hanno figli o parenti diversamente abili o che siano semplicemente interessati al tema o che vogliano partecipare o cooperare sono i benvenuti! Troverete tutti gli aggiornamenti e informazioni sul nostro sito www.artemisiaprojekt.de .

Grazie Amelia e in bocca al lupo!

Autore: Barbara Ricci

About The Author

Barbara Ricci

Mi chiamo Barbara, ho 44 anni, sono nata a Roma e frequento la Germania dal ' 98. Sono un' attrice. Ho lavorato sia in Italia che in Germania per diverse produzioni televisive.  Mi sono anche laureata in Lingue ( Francese e Inglese) alla III Università di Roma.  Ho due figli ( Niccolò di 14 e Sophia di 9) che frequentano entrambi scuole italo-tedesche. Mio marito è tedesco (attore anche lui) e insieme abbiamo vissuto prima a Monaco di Baviera, poi a Berlino dal 2005 al 2007, Roma, Colonia, e nel 2011 siano tornati a Berlino. Qui in Germania non ho solamente lavorato come attrice, ho anche saltuariamente esercitato altre professioni, soprattutto di intermediazione tra aziende tedesche e italiane e nell "Assistenza Clienti". Adoro Berlino, oramai fa parte di me, ma in tutti questi anni  ho sempre mantenuto  un legame solido e imprescindibile con la mia città natale, Roma, e con l' Italia.

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